A questo punto, dopo sei settimane dove inevitabilmente il fulcro delle attenzioni resta l’innalzamento promesso di dazi e tariffe, il quesito principale riguarda quanto realistica sia la possibilità che tutto sfoci in una guerra protezionistica.
Non a caso le due parole “guerra” e “protezionismo” trovano associazione perfetta in questo contesto, dal momento in cui pulendo i numerosi tweets e dichiarazioni ufficiali dell’amministrazione Trump, si evince che l’obiettivo finale resta quello di costringere in particolare la Cina ad aprirsi un po’ di più all’economia mondiale.
E allora da qui mi piace partire per trovare qualche argomento utile.
Innanzitutto la Cina, da quel lontano dicembre 2001 in cui siglò il Protocollo aderendo al WTO, (acronimo inglese di Organizzazione Mondiale del Commercio) ha svolto qualche passo verso un sistema economico più aperto. Sicuramente non ha compiuto tutte le azioni necessarie per essere considerato tale da Europa e Usa, ma almeno negli ultimi passaggi, riferendomi al diciannovesimo Congresso del Partito Comunista che si è tenuto lo scorso novembre, il presidente Xi Jinping, ha palesato la volontà di continuare nel percorso intrapreso nel segno di apertura ulteriore del proprio sistema economico.
È una Cina profondamente diversa, la cui economia dipende ancora dalle esportazioni (non a caso le prime tariffe annunciate da Trump sull’alluminio mettono in seria difficoltà la corretta allocazione dell’output delle aziende cinesi che contano sullo sbocco internazionale e soprattutto statunitense) ma che vede ormai nei consumi interni e nella produzione di servizi un’ulteriore catalist della propria crescita. E così anche l’innovazione tecnologica è, della Cina, un aspetto che la differenzia rispetto a due decenni fa.
Quello che preoccupa seriamente gli Stati Uniti, è proprio la proprietà intellettuale. La Cina non è più soltanto il Paese a cui demandare la produzione industriale più inquinante, ma il progresso tecnologico, anche in chiave prospettica preoccupa la posizione di leadership americana.
E allora rileggiamo gli ultimi Tweet di Trump oppure soffermiamoci sulla politica di comunicazione, probabilmente volutamente confusa da parte di Larry Kudlow (nuovo economic advisor di Trump da quando Gary Cohn si è dimesso non condividendo le scelte del Presidente) e da parte del segretario di Stato Mnuchin. Entrambi nel tentativo di difendere le posizioni di Trump, ribadiscono la linea dura e si mostrano aperti al dialogo qualora la Cina accetti le proprie condizioni; in definitiva dichiarano di non voler giungere ad una guerra di dazi, ma non ne escludono l’eventualità.
Questa situazione di incertezza, ora galvanizzata dalle contro misure della Cina, ora smussata da parole di apertura ad una forma di dialogo, sta contraddistinguendo la price action dei mercati. Un’incertezza che contrappone l’onda buona agli investitori più bearish, entrambi focalizzati a comprendere quanto dello scenario peggiore sia già incorporato nei prezzi dopo che nella giornata di venerdì l’indice S&P500 si è appoggiato sulla media a 200gg.
Una situazione di incertezza corroborata nelle settimane precedenti dai Tweet su Amazon e da qualche giorno dall’inasprirsi della situazione in Siria. Sono arrivati prontamente dei Tweet dove Trump ha chiamato in causa la Russia e lo stesso Putin nel ruolo di responsabili. Sono seguite sanzioni dirette verso oligarchi e imprese russe, a minare il tessuto economico, ancora una volta dirette principalmente al mercato dell’alluminio.
Ma questa è un’altra storia in corso d’opera, in grado di portare incertezza anche a livello internazionale per i risvolti reali che si porta dietro. Così come le contro misure della Cina rivolte a danneggiare la parte dell’elettorato vicina a Trump, gli agricoltori e produttori di soia.
Ancora un’altra storia in attesa che tutto si possa calmare, con le elezioni del mid term ancora lontane, bisogna sperare che Cina e Russia si mostrino più compiacenti. Da parte degli Stati Uniti, per quanto non stiano comunicando bene i contenuti, è evidente la scelta del tono: di chiara sfida.
La partita si giocherà con l’accesso ai mercati in una sorta di equilibrio che sembra essere più precario, ma che dovrebbe lasciare spazio a nuovi accordi. Questa sembra la parola mancante. Accordi, anche bilaterali che per quanto rappresentino una scelta sub-ottimale, riescano a placare anche temporaneamente le attuali diatribe.