Cibo spazzatura, comodo, ricercato o semplicemente venduto bene?
Noi italiani di cibo ce ne intendiamo, ma nell’ultimo periodo inventare nuovi contesti alimentari sembra una necessità.
Dilagano le specializzazioni: la tipicità, le sigle del DOP, DOC e affini, i presidi slow food, le botteghe del gusto, i percorsi enogastronomici. C’è stato il filone dell’etnico, partito con il messicano, approdato nel sushi e ora sembra che siano le hamburgherie la nuova frontiera del fashion. E dopo il cosa trovarsi nel piatto, arriva il momento di capire il come.
Fast food che vogliono essere sempre più accoglienti e quindi meno veloci? Oppure locali All you can eat che sostituiscono o si affiancano alla nostra tradizione di Menu fisso pranzo di lavoro 10 euro? Infine si alternano i fanatici del bio e del salutare con i maniaci delle offerte da primo prezzo incuranti della qualità.
Dietro a ognuna di queste situazioni si cela un’esperienza, una concezione che l’idea di mangiare si porta dentro.
Il lungo pasto in famiglia la domenica, lascia il posto a qualcosa di veloce in solitaria. La tovaglia e i piatti carichi diventano finger food sui vassoi. Con tanti programmi di cucina si diffondono i foodies, che si interessano al cibo fingendosi o diventando dei gourmet di alimenti strani o stellati.
Cosa cerca il consumatore nel cibo? E cosa offre il marketing per andare incontro alle esigenze del cliente?
Intanto la prima azione di marketing è stata quella di trasformare il cibo in food.
In quest’epoca di non-lingua tradurre una parola significa trasporre un nuovo concetto. Se il cibo è per nutrirsi, il food è esperienza e stile di vita.
Anche le pietanze servite hanno un packaging e una pubblicità che, ben prima dell’acquisto del prodotto, devono essere accattivanti.
Le regole d’oro del marketing valgono anche per i baracchini dello street food.
Per il place è fondamentale scegliere di delocalizzare: lo stesso cibo, fuori dal contesto e dal luogo di origine, è ciò che serve per il successo. Il prodotto poi deve essere desiderabile e innovativo, non nei componenti, ma svecchiato nelle modalità di presentazione o di consumo. Il prezzo determina il posizionamento e se voglio creare un brand di successo bisogne far pagare la qualità che il cliente si aspetta. Per la promozione l’ideale sarebbe riuscire a inventarsi un marchio che sappia trainare e creare moda. Uno stile unico e inatteso, decontestualizzato e reso modaliolo.
Perché, almeno in Italia, lo street food è una moda, non una necessità.
Eccentricità, tipicità e focalizzazione: queste le caratteristiche per sfondare. Dai chioschi a forma di limone per proporre cocktail e granite, all’idea francese di enormi bignè ambulanti per offrire alta pasticceria d’autore, l’eccesso risulta per alcuni una chiave distintiva.
Se negli USA i food truck più apprezzati puntano alla salubrità con tanto di rating da A a F, in Italia spopolano quelli che portano la tipicità in ogni dove. Il giro d’affari aumenta e anche l’indotto, in primis di chi allestisce i veicoli, ha una crescita a 2 cifre. I costi variano dai 20.000 ai 40.000 euro per ogni mezzo e, burocrazia a parte, è facile iniziare.
L’idea in più, CAPEGGIATA dal comune di Milano, è di puntare a mezzi a basso impatto ambientale, per ridurre costi ed emissioni.
Le prossime tendenze che arrivano dagli States sono le Urban Oasis con frutteti e giardini pensili sui grattacieli per avere prodotti freschi e a Km zero. E dentro le stazioni ci sono Urbanspace Vanderbilt simili a temporary store con bancarelle di street food e spazi comuni, tavoli per mangiare insieme mentre altre aziende specializzate si occupano di gestire il marketing per lasciare ai cuochi tutto il tempo per creare nuove ricette.