Che fosse nato il 26 settembre o il 28 settembre 1924, poco importa, quello che è sicuro è che in questo weekend si celebra il centenario della nascita del più grande attore italiano della sua generazione. Parliamo ovviamente di Marcello Mastroianni, che partendo da Fontana Liri, paese della Ciociaria, che ne ha visto i natali, ha conquistato il mondo, con quella sua recitazione sorniona e carica di umanità.
Per lui recitare era un gioco, lo ha sempre detto. Un gioco complicato e malizioso che coinvolge, non lascia via di scampo. Più lo fai e più vorresti continuare a farlo. “Il mestiere dell’attore io lo vivo come un gioco meraviglioso. Recitare è quasi meglio che fare l’amore perché è inebriante assumere sembianze, atteggiamenti e psicologie di qualche altro. E’ quello che fanno i bambini. E’ il gioco più antico. E’ il primo gioco che inventiamo quando facciamo finta di essere tu il poliziotto, io il gangster. Io mi nascondo lì, tu fai così. E uno ci crede”. Il gioco implica l’azzeramento del calendario, la paralisi del tempo che gli antichi raffiguravano come un bambino che gioca ai dadi. Forse è proprio questa la sensazione di Mastroianni quando azzardava che i 40 anni della sua carriera passati “giocando” erano trascorsi così velocemente che non gli sembrava di averli vissuti. “Una volta mascherato dietro un personaggio, una volta dietro un altro, io come Marcello Mastroianni quand’è che ho veramente vissuto?”. Ma minimizzava subito: “Non voglio fare l’artista che ha vissuto attraverso gli altri, anche se è un po’ così”.
Tra il principio di realtà e il principio di piacere che convivono in molti come dei separati in casa pronti a saltarsi addosso e a distruggersi, nell’attore prevaleva decisamente il secondo. Sopraffatto a volte dai sensi di colpa. “Facendo il mestiere dell’attore si imbocca senza rendersene conto una fuga continua. Spesso per vigliaccheria perché non essendo maturi non si ha voglia di affrontare la realtà. E’ più facile vivere storie che appartengono ad altri, raccontare delle favole. Così però si sfugge a un dovere che uno avrebbe verso se stesso, verso gli altri, verso la vita”. In questo continuo scambio di ruoli ci si può chiedere se non gli sia capitato di confondersi tra la vita e la scena. Se i personaggi che prendono possesso dell’attore non abbiano poi bisogno di esorcismi per abbandonarlo. “Alle volte uno si porta dietro dei personaggi perché, da mascalzone, da vigliacco, gli fa comodo. In una certa situazione uno pensa: adesso faccio quel personaggio stravagante, mi presento con questa personalità curiosa. Magari funziona. A chi pensa di essere un pò grigio nella vita può far comodo avere un colore in più, diventare più interessante. Ma se qualche volta l’ho fatto, l’ho fatto scegliendo, non perché mi trascinavo dietro questo fantasma dal quale non riuscivo a liberarmi. Coinvolto dunque nel gioco ma fino a un certo punto, meglio se l’attore è incapace di critica perché non deve essere troppo consapevole di quello che fa”. All’immagine attiva dell’attore d’assalto che assedia ed espugna il copione, Mastroianni preferiva sostituirne una che gli si adatta meglio. “E una specie di innamoramento momentaneo. Il rapporto tra l’attore e il personaggio è un curioso transfert”. Si era trovato nei film di Fellini in una situazione di totale libertà come non aveva mai potuta averla nella vita di tutti i giorni senza incorrere in problemi e contraddizioni insolubili. “Durante la lavorazione de ‘La Dolce Vita’ vissi in totale libertà e in totale accordo con me stesso, con i miei difetti, i miei vizi, le mie lacune. Non ebbi più timore di mostrarmi quale ero. Mi sentii libero, profondamente libero e felice”.
Non costretto dentro ruoli scelti una volta per tutte ma non mai accettati fino in fondo, trovava nei personaggi dello schermo il modo di esprimersi attraverso i suoi limiti, che diventavano le qualità espressive dell’attore. Il vissuto del set era per lui quello più vero. Accettava i ruoli, li viveva bene proprio perché non erano lui, non erano in prima persona, ma erano delle identità provvisorie in cui nascondersi. Solo recitando riusciva a far cambiare di segno al suo malessere. Difficile che Mastroianni perdesse l’aplomb fondato su solide basi ciociare. Solo in un caso era pronto a reagire in maniera vivace: quando lo si voleva far passare per seduttore. Era un’immagine di sé che rifiutava. “Perché chiedere sempre a me delle donne? Io sono pigro per natura, sono stato più colto di quanto non abbia colto. Non ho mai sostenuto il ruolo del seduttore anche se sono sempre stato circondato da bellissime donne. Sono stato piuttosto sedotto. Non mi appartiene proprio questa definizione”.
Per lui il seduttore è il tipo eccezionale. Sullo schermo è l’attore con la A maiuscola come Clark Gable e Gary Cooper. Nella vita è quello che sfodera la volontà di conquista, mette in atto una strategia. Mastroianni non aveva dichiarato guerra all’altro sesso, non doveva intrappolarlo né gli interessava mostrare la propria virilità. Con le donne era in uno stato di armistizio permanente, non aveva niente contro di loro fino al punto di essere dalla loro parte e di comportarsi nel rapporto a due senza aggressività. Non ha capito niente di lui chi lo considerava un seduttore. E questo lo sconcertava come se gli anni passati a fare un lavoro sotto gli occhi di tutti fossero passati invano, perché la gente non si era nemmeno accorta di chi c’era dietro le centinaia di maschere che aveva indossato. Ma lui era il primo che giocava su questa contraddizione, che si divertiva a nascondersi dietro la sua aria sorniona. Era imprendibile. Mentre sembrava l’attore meno complicato che potesse esserci, fino alla fine ci si sarebbero potute aspettare delle sorprese. Perché, come diceva lui, che si barricava sempre dietro la sua proverbiale bonomia, dentro c’era tutto. Il centinaio di personaggi che aveva incarnato, l’understatement, l’autoironia, la possibilità di assumere personalità diverse.
Se si sfoglia l’album di una carriera affollata di personaggi e di occasioni viene facile attribuire a Marcello i mestieri più disparati: tassista a piazza di Spagna, poliziotto a Rapallo, giornalista a via Veneto. Il suo passato è pieno di storie e di amori. Nonostante la prodigalità con cui si presta a tanti personaggi diversi, attraversa gli avvenimenti della vita e del cinema senza dimenticare il filtro che ha sempre messo tra sé e le cose che succedevano. La semplicità come elemento basilare e cardine del suo stile di recitazione. Non lo avremmo mai potuto vedere nelle vesti dell’eroe. Non sarebbe mai stato né Napoleone, né John Wayne. Quando gli chiesero di fare un film a Hollywood propose di interpretare un cow boy sordomuto. O scherzava su un ipotetico Tarzanhoff ambientato in Siberia.
Il rapporto che lo rivela meglio è quello con il suo regista d’elezione Federico Fellini. Il legame tra Mastroianni e Fellini tocca corde molto più profonde di quanto non si creda, anche se era soprattutto un rapporto pubblico, riguardava più i film che la vita privata. Per Fellini, Marcello era veramente l’attore che si manipola, si plasma con un senso di complicità e di reciproco divertimento, perché sa di essere manipolato e sta al gioco. Anche con Marco Ferreri, regista di grande talento e suo grande amico, il meccanismo pressapoco funzionava nella medesima maniera. Il segreto di Mastroianni è di aver fatto coincidere il gioco con il lavoro. Si divertiva, non gli piaceva dire “lavoro” perché lavoro significa sforzo, spesso anche competizione. Sostituiva “lavorare” con il francese “jouer”, che gli sembrava più vicino a quello che sentiva, al tipo di impegno leggero e piacevole che era diventato per lui recitare. Un talento semplice, ma anche umile. Un esempio su tutti, nel marzo del 1967, su invito di Renzo Tian, Critico teatrale e direttore dell’Accademia di Arte Drammatica, Mastroianni parla agli allievi in maniera disincantata, scettica, priva di spacconerie e di illusioni, del suo mestiere e della sua vocazione d’attore. Affascina i giovani abituati alle star che esaltano la loro arte, li conquista con la semplicità, con la sua aria bonaria, con il suo fascino, con la sua eleganza di attore d’altri tempi, ma saldamente ancorato alla realtà contemporanea. E dire che nel corso degli anni ’60, Mastroianni è l’attore più pagato, più fotografato e più chiacchierato d’Italia. Il suo cachet è secondo solo a quello di Sophia Loren. Rientra in un ristretto gruppo di star internazionali ad alta quotazione, in cui vi sono Albert Finney, Peter O’Toole, Richard Burton, Omar Sharif e pochi altri. La quotazione di Mastroianni, a fine anni ’60 è di 150 milioni di lire a film. Tognazzi ne prende 50, Manfredi 30. Eppure è sempre stato umile, non ha mai voluto, o accettato paragoni, confronti o competizioni con i suoi colleghi, illustri e meno illustri. Negli anni il suo mestiere è diventato sciolto, ricco di accensioni improvvise, di piccole invenzioni che rendono vivi anche i personaggi più stereotipati, di sottotoni che danno carica emotiva ai sentimenti più profondi.