“A causa dell’invasione russa dell’Ucraina, siamo tolleranti verso forme di espressione politica che normalmente violerebbero le nostre regole sui discorsi violenti” ha esordito così pochi giorni fa all’Agence France Presse, Andy Stone, capo delle comunicazioni di Meta, legittimando, di fatto, l’hate speech.
La casa madre dei social network mondiali ha specificato che, la deroga, è limitata al drammatico periodo, ed è riferibile solo a commenti relativi agli invasori russi, cioè i militari, Putin (Presidente della Russia), e Lukashenko (Presidente della Bielorussia), e non ai cittadini civili russi. La facoltà di inneggiare all’odio sarebbe inoltre possibile solo ai residenti in Armenia, Azerbaijan, Estonia, Georgia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Russia, Slovacchia e Ucraina, perché, viene specificato, la minaccia non riguarda altri.
Immediata è stata la risposta da parte delle istituzioni russe, “Chiediamo alle autorità di fermare le attività estremiste di Meta e prendere misure per portare i responsabili di fronte alla giustizia”, si legge in un tweet dell’ambasciata russa a Washington, “gli utenti di Facebook e Instagram non hanno dato ai proprietari di queste piattaforme il diritto di determinare i criteri della verità e di mettere le nazioni l’una contro l’altra”.
Il gruppo Meta, di fronte al polverone suscitato, ha successivamente dichiarato, tramite le parole del presidente degli affari globali Nick Clegg, “[…] non permettiamo le chiamate per assassinare un capo di stato […] al fine di rimuovere qualsiasi ambiguità sulla nostra posizione, stiamo ulteriormente restringendo la nostra guida per rendere esplicito che non stiamo consentendo le chiamate per la morte di un capo di stato sulle nostre piattaforme”.
Cos’è l’hate speech
Con il termine di origine inglese, coniato negli anni ’20, si intendono tutti quei discorsi di odio, commenti offensivi, contenuti violenti e insulti che circolano sui social network.
Un fenomeno assai diffuso, riconosciuto come uno dei mali della società contemporanea, il discorso dell’odio, infatti, “mina il valore democratico della discussione e dei processi partecipativi, legittimando, contemporaneamente, modelli comportamentali fondati sulla cultura della discriminazione” (S. Bentivegna, R. Rega, I discorsi d’odio online in una prospettiva comunicativa: un’agenda per la ricerca, in Mediascapes Journal, 16/2020).
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Con le nuove tecnologie le guerre sono diventate globali, prima ancora che mondiali (e per fortuna!). Nella sfera informativa, iperconnessa e pervasiva, siamo tutti protagonisti. Siamo tutti chiamati in causa.
Un male che da tempo, la società stessa, cerca di curare, con l’obiettivo di mitigare l’effetto dei social che, da strumento democratico, ha finito per essere un’arma di discriminazione, facendo leva sull’anonimato.
Tra i portavoce di questa missione, in Italia, c’è l’on. Liliana Segre, una donna che l’odio lo ha conosciuto fin troppo bene, che fortemente ha promosso l’istituzione della Commissione Straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza, di cui è Presidentessa, che ha il compito di vigilare sulle forme di odio verbale nell’ambiente digitale. A dare sostegno al lavoro della Commissione si è adoperata anche Amnesty International, con le Rete Nazionale per il contrasto ai fenomeni dell’odio, con sede a Roma.
Analisi di un problema radicato
I primi studi relativi al fenomeno risalgono alla fine degli anni ’90, in cui emerge chiaramente il fatto che alla comunicazione online non ci siano limiti, si diffonde velocemente su larga scala e risulta pressoché impossibile difendersi.
I social network hanno modificato il modo di parlare, rendendo illimitata una libertà di espressione che, probabilmente, in precedenza, non si esprimeva a tali massimi livelli. Si innesca quello che, nell’ambito delle teorie della comunicazione, viene definita “spirale del silenzio”, secondo la quale, se ho la percezione che la maggior parte dell’opinione pubblica la pensi come me, sono disposto ad esprimere la mia intolleranza. Si realizza quello che il filosofo coreano Byung-Chul Han, ha definito “sciame digitale”, un brusio virtuale che agita la rete, spingendo le persone a condividere messaggi d’odio. Lo sciame viene aumentato a sua volta dall’”effetto filter bubble”, in quanto gli algoritmi del web presenteranno sempre più contenuti violenti a chi ne visualizza, innescando così un circolo vizioso che ci riporta al nostro inizio, cioè ad una spirale del silenzio senza fine.
A propria difesa, chi adotta questo atteggiamento sul web, si appella all’art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, relativo alla libertà d’opinione, quasi a trovare una giustificazione all’odio espresso.
Ma c’è veramente una giustificazione all’odio?
È questa la domanda che, di fronte all’affermazione in controtendenza di Meta, ci domandiamo. Senza entrare nel gioco delle parti, è giusto che il “cattivo” venga offeso, e apostrofato pesantemente?
Ancora una volta, sono le parole dell’on. Segre a venirci in aiuto e a farci riflettere: “Se si ammettono le parole dell’odio nel contesto pubblico, se si accoglie l’hate speech nella ritualità del quotidiano, si legittimano rapporti imbarbariti. Io l’odio l’ho visto. L’ho sofferto. E so dove può portare”.
Si sta lavorando tanto per sottolineare l’importanza del linguaggio e della forma espositiva. Già negli anni ’60, il secondo assioma della comunicazione di P. Watzlawick, sottolineava l’importanza della distinzione tra il contenuto del messaggio e la relazione, cioè la forma con la quale il contenuto stesso viene esplicitato, a cui prestare particolare attenzione perché spesso fonte di incomprensioni e litigi.
Se la deroga di Meta fosse vera, sarebbe un po’ come dire che “il fine giustifica i mezzi” parafrasando Machiavelli, quasi a significare che, se il motivo è serio puoi farlo, e allora tutti potrebbero sostenere di avere un motivo importante per offendere qualcuno altro, ci sarà sempre una situazione delicata che autorizzerebbe tale odio.
E se riflettiamo, credo si possa affermare con certezza che, se la guerra nasce dall’odio, forse non ha senso rispondere con altro odio.
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