Nel 1995 usci “Safe”, un film che parlava di malattia, quarantena forzata e isolamento sociale. Una cupa profezia cinematografica che tutti dovremmo vedere.

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In questi giorni di Coronavirus e di clausura forzata, mi è tornato in mente un film abbastanza vecchiotto, del 1995, “Safe”, di Todd Hayne, lo stesso regista che il mese scorso (febbraio) aveva portato nelle sale italiane il film “Cattive acque” con Mark Ruffalo.

Perché mi sia tornato in mente questo film è presto detto.

Credo che questo profetico film d’autore, all’epoca assai sottovalutato, abbia diverse cose in comune e molti punti di contatto con il momento storico che stiamo vivendo, segregati in casa e smaniosi di recuperare una normalità che oggi ci pare straordinaria ed ammantata di nostalgia.

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Il film “Safe” parla di Carol White (una straordinaria Julianne Moore), signora dell’alta borghesia californiana, che da giorno all’altro si scopre affetta da Sensibilità chimica multipla, una rara malattia che la porta rapidamente a diventare allergica ad ogni composto, prodotto, agente ed oggetto della modernità, così come ai gas di scarico ed all’inquinamento ambientale.

La ricca e annoiata Carol, che passava le giornate fra il parrucchiere e lo shopping con le amiche, le sedute di aerobica e l’hobby del giardinaggio, fra le sue manie salutiste e quelle di design che la portavano a variare spesso l’arredamento della sua lussuosa villa, dovrà cambiare radicalmente stile di vita. Per prima cosa si isolerà nel suo appartamento, rendendolo a poco a poco asettico e sterilizzato, poi cambierà dieta ed orari e comincerà a rimpiangere tutto ciò che prima le sembrava scontato e banale, perfino il rapporto con il marito Greg (l’attore Xander Berkeley) ed il figlio di prime nozze di quest’ultimo, Rory, di 10 anni.safe-e1533562389746

Ma l’isolamento forzato non funziona, e, alla ricerca spasmodica di un rimedio, un giorno si imbatte nella pubblicità del Wrenwood Center, un ranch che raccoglie una comunità di 200 individui un po’ asceti ed un po’ hippie, che vivono e ricercano un ideale ritorno alla natura ed alla semplicità. A capo della comunità c’è un tale, Peter Dunning (l’attore Peter Friedman), uno scrittore a sua volta malato di AIDS, che si atteggia a guida spirituale in pieno stile new age.

Todd Hayne gira il film prediligendo i campi lunghi, che rendono le composizioni fredde e le atmosfere inquietanti, oltre a creare un ideale distacco dalla protagonista, il che ne accentua ancora di più l’isolamento. Il film è diviso in due parti abbastanza distinte: una prima più narrativa, sperimentale, visionaria nel restituirci la quotidianità dell’alta borghesia americana; la seconda più formale, convenzionale, quasi documentaristica, perfetta nel tratteggiare il calvario della protagonista, che vive su di sè tutte le possibili cure psicologiche e farmacologiche alle quali si sottopone per guarire. Il film, cupo e pessimista, che ricorda per molti aspetti Cronenberg, è una critica aspra e cruda alla società consumistica e materialistica occidentale, ripiegata su se stessa ed incapace di vedere i danni che sta arrecando al pianeta in cui vive.

Todd Hayne, che in seguito si farà apprezzare per film come “Lontano dal Paradiso”, “Carol” e “Io non sono qui”, dirige gli attori con maestria, tirando fuori ottime performance. Fra tutte, è proprio Julianne Moore che ci restituisce un’interpretazione perfetta nel tratteggiare la sfaccettata personalità di Carol con tutte le sue nevrosi, le sue idiosincrasie e le sue fragilità, un personaggio sempre sull’orlo del precipizio, pronto ad esplodere, ma che in realtà interiorizza tutta l’angoscia e le tensioni della sua patologia e del suo male di vivere.

Rivedere questo film oggi, in piena emergenza coronavirus, può sembrare ai più un dannoso atto di masochismo, ma sono profondamente convinto che in realtà rappresenti un essenziale esercizio ginnico per allenare la nostra memoria, così spesso incapace di fissare i ricordi importanti, le esperienze significative e le emozioni più profonde.safe7

Quando usci, “Safe” era un film potente, crudo e visionario, quasi di fantascienza, che anticipava sul finire del secolo scorso un mondo che ancora doveva venire e che oggi è quello in cui viviamo, ci muoviamo e nel quale ci ammaliamo.

E non importa se ci ammaliamo di Sensibilità chimica multipla o a causa del Coronavirus, quello che il film ci racconta è la lenta ed inesorabile parabola di un essere umano che, in un mondo oramai sintetico, per scampare da un male senza forma, peso e consistenza, è costretto a richiudersi nel profondo della propria individualità, scoprendo con sgomento che ciò che chiamava vita era riempita più di cose e di oggetti che di significati ed emozioni.

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