Christian Zorico (162)
Poche parole per descrivere la settimana appena trascorsa: un rinnovato appetito per il rischio, galvanizzato dai dati sull’occupazione rilasciati dal Dipartimento del Lavoro USA nella giornata di venerdì. Il rendimento del decennale US è schizzato poco sotto il 2.35%, con un innalzamento di oltre 10 punti base nella sola giornata di venerdì. Ancora un breve sguardo al dollaro e ci rendiamo conto che ormai il mercato prende in seria considerazione un imminente rialzo dei tassi di interesse da parte della FED: l’euro ha infatti chiuso la settimana in area 1.0740 nei confronti del biglietto verde, ben tre figure sotto i livelli di lunedì scorso. Le probabilità che al prossimo meeting di Dicembre la Federal Reserve possa effettivamente rialzare i tassi per la prima volta dopo 10 anni sono aumentate, ed ora, si attestano ben sopra il 70%.
In questo numero dello “Specchietto Retrovisore” guardiamo assieme nel dettaglio il rapporto sul lavoro, l’evento che ha sicuramente dato una svolta alla settimana appena conclusa. Cercheremo di contestualizzare gli ultimi dati disponibili alla luce dell’attuale struttura dei rendimenti e, in chiave prospettica, proveremo a delineare eventuali rischi che il mercato potrebbe sottovalutare.
Partiamo quindi dal dato che impressiona maggiormente: la disoccupazione è scesa al 5% rispetto al 5.1% di settembre; il salario orario medio è cresciuto dello 0.4% nell’ultimo mese dopo essersi fermato a settembre, facendo raggiungere la soglia del +2.5% negli ultimi dodici mesi, rappresentando il miglior andamento sin dal 2009. Tutto questo avviene grazie ai nuovi 271.000 occupati, ben al di là delle stime degli analisti che prevedevano una crescita di 180.000 impieghi.
Ovviamente bisogna comunque considerare su tutti un aspetto fondamentale: il numero di americani che è parte della forza lavoro (lavoratori più disoccupati) si è fermato al 62.4%, il dato più basso negli ultimi 38 anni e immutato rispetto a settembre. La fotografia di ottobre sullo stato di salute del lavoro ci riporta anche uno spaccato demografico: la percentuale di disoccupati tra i “Bianchi” si attesta al 4.2%, immutata rispetto al mese precedente e in calo dello 0.5% rispetto ad un anno fa, 9.2%; i disoccupati “Neri” come a settembre, ma in calo dell’1.7% nei dodici mesi precedenti; 6.3% per gli “Ispanici”, -0.1% sul mese e -0.5% sull’anno; 3.5% i disoccupati tra gli “Asiatici” un dato migliore dell’1.5% rispetto ad un anno fa; ed infine a livello aggregato i “Teenagers” (16-19) risultano disoccupati per il 15.9% a conferma del trend in miglioramento rispetto ad ottobre 2014, con -2.8%. Guardiamo assieme anche lo spaccato del dato sulla disoccupazione per livello di educazione. Quattro le aggregazioni: “Meno delle scuole superiori”, “Scuole superiori”, “College” e “Università o più elevato”, tutte in contrazione dello 0.5% rispetto all’anno precedente, ma con un divario enorme tra i diversi livelli. Per prendere in esame gli estremi, il livello più basso di istruzione risulta disoccupato per il 7.4% mentre le persone più qualificate non ancora impiegate risultano al 2.5%.
Ho voluto offrire una fotografia con più particolari possibili perché mi risulta più semplice mettere a fuoco un particolare che trovo interessante da approfondire. Spostiamo infatti l’attenzione sull’argomento “inflazione”. Le dinamiche dei prezzi risentono oltre che di pressioni derivanti dalle materie prime, anche delle dinamiche salariali. Pur avendo riscontrato un trend positivo nel salario medio orario, in ottica futura appare ragionevole pensare che eventuali miglioramenti del dato aggregato di disoccupazione, possano esser possibili proprio grazie all’assunzione di quella parte della popolazione costituita da ispanici, neri, giovani e con livello di istruzione inferiore, che in media hanno un limitato potere contrattuale. Per quanto la Federal Reserve abbia un mandato di politica monetaria duale, che ripone nella piena occupazione e nel target di inflazione del 2% i propri capisaldi, resta fondamentale osservare nei prossimi mesi oltre al mondo del lavoro, la crescita del prodotto interno lordo e soprattutto eventuali pressioni inflazionistiche provenienti da salari più alti. In tutto questo non scordiamo il ruolo di un dollaro più forte: si tradurrebbe in ulteriore pressione per il prezzo delle materie prime, farebbe importare deflazione agli Stati Uniti e rappresentare un freno per la crescita degli Stati Uniti. Si stima infatti che un apprezzamento del dollaro del 10% possa pesare per lo 0.5% di GDP a livello aggregato. Ritorniamo pertanto a quanto esposto inizialmente nell’articolo: il 2.3% offerto dal decennale americano sconta già un rialzo ma, soprattutto rendimenti sopra il 3% offerti dal trentennale, potrebbero essere considerati interessanti dal mercato in mancanza di pressioni inflazionistiche.
Solo in chiusura, i mercati azionari in US hanno recuperato le perdite accusate subito dopo l’ottimo dato dell’occupazione, segno comunque che qualche preoccupazione aleggia tra gli operatori. Vedremo assieme nei prossimi appuntamenti come si evolve la situazione.