Christian Zorico (162)
Questa settimana avremmo bisogno di uno specchietto retrovisore particolarmente largo, capace di contenere i molti avvenimenti accaduti. Come di consueto l’attenzione è posta su quelli che ritengo più importanti, non solo per la portata degli effetti futuri, ma perchè in grado di spiegare l’andamento di alcune variabili finanziarie. E quindi partiamo subito dall’evento che rischia di mettere in ginocchio l’industria dell’auto e non solo in Germania. Lo scandalo Volkswagen, relativo alle emissioni truccate delle automobili con motore diesel, si riferisce a 11 milioni di vetture vendute in tutto il mondo. L’indagine partita negli Stati Uniti (circa 500 mila di vetture) si è allargata velocemente negli altri Paesi.
Questi i numeri che riassumono il caso: una multa potenziale fino a 18 bn di dollari (forse un po’ esagerata perchè significherebbe 36.000 dollari per vettura venduta in USA), 6.5 bn di Euro già accantonati dalla compagnia per far fronte al danno e circa il 30% in meno nelle contrattazioni di borsa nell’ ultima settimana. Il CEO, Martin Winterkorn ha rassegnato le dimissioni e, venerdì, è stato nominato Matthias Mueller, 62 anni, già alla guida di Porsche, come nuovo CEO del Gruppo Volkswagen con il compito arduo di riscostruire la fiducia e recuperare la reputazione della casa automobilistica. Una reputazione che non è solo legata a VW, ma piuttosto si riferisce al “made in Germany”, come sottolineato anche dalle più alte cariche del governo tedesco.
E proprio su questo punto vorrei fare un paio di considerazioni. La Bassa Sassonia detiene il 20% dell’azionariato VW e, quella che in un sistema anglosassone viene definita “Golden Share”, si traduce in un controllo diretto da parte del primo ministro della Regione, attualmente Stephan Weil, leader del SPD e membro del comitato di supervisione del gruppo VW. Pertanto, un problema legato all’immagine dell’azienda automobilistica, è un problema dell’immagine della Germania. Ogni influenza degli Stati nella governance delle società, rende le stesse meno private e più pubbliche per definizione. Inoltre, aver cercato il succesore di Winterkorn all’interno della stessa azienda, inevitabilmente rappresenta una scelta sub ottimale, in quanto viene incaricata una persona che, anche solo potenzialmente informata dei fatti, dovrebbe invece rappresentare un preludio di un nuovo corso.
Ma la settimana finanziaria non può solo essere spiegata dal micro: due importanti discorsi hanno dettato i temi dello scenario macroeconomico: prima Mario Draghi in un’audizione alla Commissione economica e monetaria del Parlamento europeo ha ribadito, tra le altre cose, che la ripresa in Europa procede in modo graduale e che almeno nel breve termine non si assisteranno a pressioni inflazionistiche. I toni del presidente della BCE sono apparsi più moderati in quanto, un ulteriore intervento tramite un incremento del QE, sarà messo in atto solo se le condizioni economico-finanziarie lo renderanno necessario. Fortunatamente la presidente della FED Janet Yellen, ad Amherst, Università del Massachusetts, ha cercato di tranquillizzare i mercati dopo il deludente discorso all’ultimo FOMC. Ha lasciato intravedere, come ancora possibile, un rialzo dei tassi già per la fine del 2015 e ha spostato l’accento sull’occupazione. Ha sostenuto che l’America non è lontana dal raggiungimento dell’obiettivo di lungo termine ed è apparsa invece meno preoccupata sulle dinamiche inflazionistiche di medio/lungo termine. Occhi puntati pertanto all’analisi dei dati occupazionali nei prossimi mesi, ma soprattutto un’attenzione particolare alla situazione dei paesi emergenti.
Come ultimo argomento di questo specchietto retrovisore, parliamo di Brasile. Il Paese sud-americano si trova ad affrontare una crisi tutta politica all’interno di una grave crisi finanziaria. Solo nell’ultimo anno il Real brasiliano ha perso il 39% rispetto al biglietto verde. La presidentessa Dilma Rousseff, nelle sue ultime dichiarazioni, esprime preoccupazione per la situazione debitoria del tessuto imprenditoriale del Paese: l’ammontare del debito espresso in valuta straniera intimorisce i mercati e le agenzie di rating. Ma la realtà è resa ancora più complessa dall’incapacità dell’attuale classe politica di far fronte all’impasse creatasi. Se infatti la crisi è da legare all’andamento delle materie prime e del petrolio ed allo scandalo tangenti Petrobras pagate al partito della Rousseff, sicuramente l’attuale governo non riesce a trovare una soluzione pel portare avanti i tagli di spesa necessari. Al momento solo la Banca Centrale del Brasile sta contenendo un ulteriore deprezzamento del Real, attraverso l’uso di riserve valutarie.
Appuntamento a settimana prossima.