Sull’effettivo valore dell’arte, molto è stato scritto. C’è chi sostiene che l’opera d’arte non “abbia prezzo” (in questo gruppo annoveriamo sicuramente molti artisti, critici e radical chic), perché frutto di un lavoro che va aldilà della sua rappresentazione e chi, dall’altro lato, prova a trattare l’opera d’arte come un qualsiasi prodotto (artistico) sul quale replicare le più comuni regole economiche e del marketing.
I primi, evidentemente, non vedono solo un’istallazione, un quadro o una scultura, ma contemplano nell’opera il tempo ed il sacrificio impiegato dall’artista: la sua visione, le sue emozioni e la sua essenza. Tutte aspetti che, se ci soffermiamo a riflettere, non possiamo non cogliere e ritenere legittimi. Per facilitare la comprensione di quanto detto, proviamo a fare un ragionamento laterale. Tutti noi possediamo un pc che, al suo interno, possiede una scheda di memoria contenente i nostri lavori e ricordi. Se un giorno decidessimo di venderlo, probabilmente (anzi quasi sicuramente), il compratore per avere la macchina ripulita da tutto, non ci offrirebbe una cifra oltre i 500 euro. E sino a qui il discorso fila. Saremmo ben felici di vendere il nostro vecchio pc ad una tale somma. Ma provate adesso a pensare al valore del vostro pc con all’interno i vostri scritti, le immagini e i video che parlano di voi stessi; sono sicuro che il valore economico che precedentemente vi appariva come equo, adesso sarebbe sproporzionato. Anzi sono ancor più sicuro che molti di voi, me compreso, non riuscirebbe a fissare un “giusto prezzo”.
Quindi per chiudere il cerchio, il vostro quadro/pc ha un prezzo economico condivisibile, ma quello che c’è dietro allo stesso, non ha prezzo. Per cui, dato che in un’opera d’arte non si può percorrere la strada della scissione tra prodotto in sé e ciò che rappresenta; per i sostenitori dell’arte avulsa dagli aspetti di mercato, non vi sono tentennamenti di sorta: l’arte non ha prezzo.
Dall’altro lato, però, chi sostiene che l’opera d’arte è e rimane comunque un prodotto, pensa che debba essere in qualche modo gestita come un qualsiasi altro prodotto, con pur tutte le eccezioni del caso. Qualcuno magari storcerà il naso, ma anche qui se ci pensiamo, le opere d’arte hanno sempre avuto un intrinseco valore economico o di scambio. In tal senso, come faceva notare Claudio Parrini (networker e pittore), in un articolo pubblicato su “Artribune” qualche anno fa, nel corso della storia ci sono stati eventi ormai diventati quasi mitologici: è il caso del macellaio che dava una fetta di carne a Ligabue per una sua tela. Oltre a quanto detto, però, comunque l’opera d’arte rimane un prodotto umano e, come tale, suscettibile di valutazione da parte della collettività o di un numero ristretto di opinion leader. Sono quest’ultimi che attraverso dissertazioni (a volte incomprensibili ai più) pongono l’artista prima, e le sue opere poi, al centro della scena mediatica, definendo di fatto il valore economico e sociale (di possessione).
Francamente non riesco a prendere le parti di questa o quella tesi. Riconosco evidentemente la singolarità del prodotto artistico e mi affascina la sua non replicabilità, ma non riesco ad essere così integralista. Sono invece fermamente convinto che per comprendere bene un’opera, e quindi riconoscerne un valore quantomeno soggettivo, bisogna prima di tutto conoscere la storia e le sensazioni di chi l’ha immaginata, cullata tra i pensieri e poi realizzata. Questo passaggio di conoscenza rende unica un’opera e, se vogliamo, “senza prezzo”. Di fatto la medesima condizione non si verifica per nessun altro prodotto: sapere chi ha prodotto un bicchiere, un’automobile, una lavatrice o qualsiasi altra tipologia di lavorazione umana, non arricchisce l’oggetto stesso di maggiore valore intrinseco. E, questo, è certamente un privilegio che può essere riconosciuto solo all’arte.