Ed alla fine è tornato, più forte ed aggressivo di prima, più capillare e diffuso, ma, se ci pensiamo bene, forse non se ne è mai andato, ha infettato molti, tanti, quasi tutti: semplici cittadini, imprenditori, associazioni, imprese, istituzioni, perfino alcuni vip e politici.
No, non sto parlando del Coronavirus, ma del prestito e della sua mutazione cattiva: il debito.
Come diceva Gordon Gekko nella celebre lezione all’università nello splendido film “Wall Street – Il denaro non dorme mai” di Oliver Stone del 2010: “…il vero nemico è il prestito, è ora di riconoscere che è un biglietto sicuro per la bancarotta, senza ritorno, è sistemico, maligno ed è globale, come il cancro. È una malattia e noi dobbiamo combatterla!”.
Chissà se il premier Giuseppe Conte, vedendo questo film, si sia fatto suggestionare dal monologo dell’attore Michael Douglas, e, memore della sentenza, abbia deciso di non accedere ai soldi, i tanti soldi, che l’Europa ha messo immediatamente a disposizione con lo strumento del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), detto anche Fondo Salva Stati, che abbiamo imparato a conoscere qualche anno fa, quando salvò dalla bancarotta stati UE come Cipro, Grecia e Spagna.
Questo è uno strumento che mette a disposizione degli stati membri un capitale di oltre 700 miliardi di euro e che, come molti sanno, pone rigide condizioni ai paesi che ne fanno richiesta, condizioni che fino ad ora, 30 ottobre 2020, mentre scrivo questo editoriale, hanno fatto desistere molti paesi dal richiederlo.
Eppure con la seconda ondata di contagi (o la recrudescenza della prima, visto che il Coronavirus non è mai sparito durante l’estate, ma ha continuato a circolare), con i Paesi membri costretti a chiudere interi comparti produttivi, ad istituire lockdown e quarantene e, quindi, a promuovere una serie di pacchetti e proposte di “ristoro finanziario” per milioni di persone, diventati da un giorno all’altro inattivi, cassaintegrati o peggio disoccupati, prima o poi i vari stati vi dovranno fare comunque ricorso, affinché questa guerra contro il coronavirus non uccida, alla fine, molte più persone di quelle effettivamente già morte.
Scelta combattuta, quella del ricorso al MES, resa ancora più inesorabile, visto che il secondo strumento messo in campo dall’Europa per aiutare i Paesi membri, il cosiddetto Recovery Fund, stenta ancora, benché approvato, a diventare pienamente operativo, almeno in tempi brevi.
Il Recovery Fund, o Next Generation EU, come lo ha chiamato la Commissione Europea, è un nuovo strumento, approvato il 21 luglio scorso, che mette a disposizione 750 miliardi di euro ripartiti in quote diverse per ogni Paese membro. All’Italia spetterebbero 209 miliardi, di cui 81,4 di sussidi e 127,4 di prestiti, che dovranno essere impegnati attraverso un preciso piano strategico, il cosiddetto PNRR (Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza), che fra le altre cose dovrà contenere una quota di investimenti, il 20% almeno, nella transizione digitale ed altre importanti quote dedicate alle politiche green, all’istruzione e alla sanità.
Insomma, se volessimo gettare uno sguardo disincantato e cinico su alcuni effetti che il Covid-19 ha innescato, peraltro già abbastanza evidenti durante il lockdown della primavera scorsa, dovremmo concludere che non tutto il male viene per nuocere, e che, così come l’Italia, anche molti altri Paesi hanno visto incrementare notevolmente lo smart working, la didattica a distanza, la digitalizzazione delle famiglie e la semplificazione burocratica di alcune istituzioni; certo, con molti problemi ancora da risolvere, ma con qualcosa che finalmente si muove nella giusta direzione.
Certo, sono pure aumentate, come in ogni grande crisi, le diseguaglianze sociali, il divario fra ricchi e poveri, fra chi ha opportunità e possibilità di cambiare e fra chi non può farlo perché non sa come mettere insieme il pranzo con la cena. È aumentato il debito, nostro e soprattutto quello delle generazioni future, problemi atavici e sottovalutati, come il cosiddetto “inverno demografico” dell’Europa, in particolare del nostro Paese, saranno ancora più acuti e drammatici in futuro. Con un’Europa che diventa sempre più vecchia e che non fa figli, sarà difficile mantenere attive, già nei prossimi 20/30 anni, le politiche di welfare e gli attuali standard di vita.
Ma oggi siamo qui a fare i conti con la recrudescenza dei contagi che, mentre scrivo, sono impietosi: il nostro Paese ha sfondato la soglia dei 30mila casi, sono 31.084 i nuovi positivi a fronte di 215.000 tamponi con 199 decessi nelle ultime 24 ore, con il famigerato indice Rt a 1.7, mentre in Francia sono 49.215 ed in Germania oltre 19.367 in un solo giorno, mentre nel mondo ci sono più di 45 milioni di contagi ed oltre 1,18 milioni di morti dall’inizio della pandemia.
Da una parte lo scenario nefasto e drammatico di un nuovo lockdown generalizzato, ed europeo questa volta, con molte imprese piccole e medie che non riusciranno più a riaprire, dall’altro il virus, che ha condizionato tutto il nostro ultimo anno, costringendoci al cambiamento repentino dei nostri comportamenti, dei nostri lavori, delle nostre vite.
Insomma, la scelta è restare aperti, contagiarsi e rischiare di morire o chiudersi in casa, fermarsi, indebitarsi oltre ogni possibilità di ripresa e morire di inedia.
Scopri il nuovo numero: Recovery round
Quella che stiamo vivendo è una partita – un round – tra le più difficili che abbiamo mai vissuto sotto tutti i punti di vista: economico, sanitario e sociale. In questo contesto i progetti relativi ai fondi europei del recovery fund potranno e dovranno essere un volano di crescita e di rinnovato benessere.
Sinceramente i due scenari sono alquanto foschi, non saprei quale scegliere, ed onestamente le rivolte, la tensione e la lacerazione del tessuto sociale non mi fanno ben sperare per il futuro. Oggi non riesco proprio a pensare che “tutto andrà bene”!
L’unica cosa che possiamo fare è adeguarci, imparare la fondamentale lezione dell’evoluzione, che ci insegna che in natura non vince chi è più forte, ma chi si adatta meglio al mutare delle condizioni, chi è flessibile, pratico, mentalmente elastico; in una parola, spesso abusata, ma a noi di questo magazine molto cara, a chi è “smart”, in tutti i principali significati che questa parola rappresenta.
Mai come ora dobbiamo sforzarci di diventare smart, ne va della nostra sopravvivenza e del nostro futuro.
Buona lettura e buona fortuna a tutti voi.
Raffaello Castellano
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