Con la vittoria di Mahmood e del suo brano “Soldi”, si conclude la sessantanovesima edizione del Festival della canzone italiana.
L’evidente stupore negli occhi del giovane italo-egiziano all’annuncio della vittoria, riassume un Festival carico di sorprese e colpi di scena.
Doveva essere il Festival dell’armonia, ma di armonia se n’è vista ben poca, a cominciare dalle polemiche sui migranti tra Salvini e Baglioni, scaturite prima ancora di iniziare, polemiche che forse qualcuno ha voluto zittire, votando l’egiziano, a monito di un popolo, che tutto sommato, ha fame d’integrazione e scambio.
A parer mio però, Alessandro Mahmoud (che ricordiamo, è nato in Italia da madre italiana e padre egiziano, è che quindi è a tutti gli effetti legali, italiano), non ha ricevuto un voto politico bensì, è stato votato per la sua canzone musicalmente accattivante.
Forse l’arma vincente, è quel battito di mani unito al ritmo arabeggiante che smorza il racconto di una storia dolorosa ma, che avrei visto meglio tra le hit estive, che sul podio di Sanremo.
Cercando, per un momento, di riavvolgere il nastro di una serata che si mostra, da subito, con un ritmo incalzante ed alcuni tempi morti, spesso mal riempiti, il quinto appuntamento, il più atteso, vede una competizione serrata ma distesa in cui, l’emozione è sicuramente il filo che lega tutti i concorrenti e gli ospiti.
Si commuovono alcuni cantanti in gara, prima fra tutti, Arisa, si emoziona e ci fa emozionare, Elisa in duetto con Baglioni, nel ricordo di Luigi Tenco e della sua “Vedrai vedrai” mentre, il super ospite Eros Ramazzotti, ci fa ballare insieme a Luis Fonsi.
Non appena comunicata la classifica però, la commozione lascia subito il posto ai fischi dell’esigente pubblico dell’Ariston che reclama sul podio, Loredana Bertè, classificata invece al quarto posto.
È lei, la vincitrice morale del Festival, più volte acclamata in sala nel corso della kermesse, e che forse, quel podio l’avrebbe meritato a corollario di una carriera travagliata ma densa di grandi successi.
Come di consueto, vengono assegnate poi alcune menzioni speciali, “Argentovivo”, il brano portato in gara da Daniele Silvestri accompagnato da Rancore, vince il Premio della critica, quello della sala stampa ed il Premio per il miglior testo, mentre “Abbi cura di me” di Simone Cristicchi, si aggiudica il Premio per la migliore interpretazione, intitolato a Sergio Endrigo ed il Premio alla migliore composizione musicale.
Strano notare come queste due canzoni abbiano fatto incetta di premi, passatemi il termine, “di qualità”, a dispetto di tutte le altre.
Seppur differenti per tematica e sonorità, entrambe le canzoni sembrano essere una spanna sopra le altre, buone, evidentemente, da accaparrarsi premi importanti, ma non da meritare il giusto posto in cui avrebbero dovuto trovarsi, il podio.
“Argentovivo” è sicuramente un brano più contemporaneo rispetto a quello portato da Cristicchi, pone l’accento sull’invisibile disagio profondo dei giovanissimi, e lo fa senza mezzi termini e giri di parole, quasi sbattendolo in faccia all’interlocutore.
Non credo invece, d’aver ascoltato negli ultimi anni, una canzone così delicata come “Abbi cura di me”, di un’intensità così forte, è inno all’amore puro per eccellenza, densa e poetica da lasciare senza parole per troppa bellezza.
Leggi anche:
Premesso che non riesco ancora a capire come si definisca una “canzone sanremese”, quindi, non ne saprei riconoscere una, nonostante segua assiduamente il Festival da tantissimi anni, mi ha colpito molto per la sua autenticità, il brano di Enrico Nigiotti, “Nonno Hollywood”, dal quale traspare l’esigenza di raccontare senza costruzioni o artifici (Enrico Nigiotti è vincitore del Premio Lunezia per il testo di Nonno Hollywood).
Forse perché a me piacciono le canzoni classiche, vecchio stampo, per intenderci, quelle che abbiano almeno, un testo comprensibile ed una melodia degna di essere tale e quindi, probabilmente, sul mio giudizio, sicuramente distratto ed ignorante, pesa quest’idea di canzone italiana un po’ demodè, nonostante questo, ho apprezzato molto la scelta della direzione artistica che ha voluto aprire a generi più contemporanei come il rap, il trap, l’indie, l’hip hop, cercando di svecchiare il tempio della musica italiana.
Forse un’esigenza di mercato, un Sanremo che attragga più i giovani, principali fruitori di musica, oppure reale desiderio di apertura, di ridare al Festival il ruolo di spaccato del mondo che prolifica e vive al di fuori dell’Ariston e, certe volte, anche a suo dispetto.
Fatto sta, che il Festival di Baglioni, unico e vero mattatore, spesso anche troppo ingombrante, regge gli ascolti ed incolla al televisore da quasi 11 milioni di spettatori con uno share del 56,5%.
Dati un po’ in calo rispetto allo scorso anno, ma sicurante non deludenti, senza contare, le interazioni sui social (complessivamente circa 15 milioni), l’esposizione mediatica nelle cinque puntate e le visualizzazioni sul sito Raiplay in netta crescita.
Visibilità che fa bene a tutti i partecipanti alla competizione ma che, mi fa piacere, abbia positivamente investito gruppi come gli Ex-Otago, I The Zen Circus, I Negrita ed i Boomdabash, che avrebbero meritato certamente, posizioni migliori in classifica.
La storia ci insegna però, che la classifica di un Festival, non è sempre specchio di un mondo fatto di radio, etichette indipendenti, streaming, visualizzazioni, follower e concerti, quindi la partita si gioca adesso, nel mondo reale, e stavolta, è vitale ed ancora lunga.
Mentre nella città dei fiori, si pensa al prossimo Festival, il settantesimo, e forse, ad un Baglioni ter, viene da chiedersi cosa attrae di questo mondo patinato e perché infiamma così tanto gli animi a dispetto di chi, le ritiene solo canzonette.
Forse è vero che questo baraccone di musica, outfit, spettacolo, pettegolezzi e polemiche, un po’ ci rappresenta, ma purtroppo a questa domanda non riesco a dare una risposta.
Quello che so, è che se prendessimo a cuore l’amministrazione dello Stato, così come prendiamo competizioni canore e partite della nazionale, forse consegneremmo un mondo migliore a quei giovani che utilizzano quella musica, che ci viene difficile comprendere, per far sentire la loro voce spesso inascoltata.