Per 3 italiani su 4 riconoscere le fake news è sempre più complesso.
Avevo appreso questo dato l’anno scorso dal terzo Rapporto Censis-Ital Communications “Disinformazione e fake news in Italia. Il sistema dell’informazione alla prova dell’Intelligenza Artificiale” e devo dire che ne ero rimasto perplesso.
Non certo dal dato in sé, perché sono anni che si parla della proliferazione delle fake news, ma dal potere negativo che questa disinformazione può avere. Perché se è difficile riconoscere una fake news, di contro lo è in qualche modo anche riconoscere una true/real news (scusate il neologismo non proprio originale).
Dati e preoccupazioni che mi sono tornati in mente con il caso Rovazzi di questi ultimi giorni. Per chi non lo sapesse, Fabio Rovazzi ha inscenato il furto del suo smartphone da parte di uno “sconosciuto” durante una live sul suo canale Instagram con l’obiettivo, poi dichiarato, di alzare l’hype sull’imminente uscita del suo ultimo singolo realizzato in collaborazione con Il Pagante.
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Insomma, una trovata di marketing studiata ad hoc visto che il singolo in questione si chiama “Maranza”, ossia, in gergo, un termine che si usa per definire quelle persone che ostentano atteggiamenti da strada, proprio come colui che gli avrebbe soffiato lo smartphone. Tutto circolare.
Bene Rovazzi per il marketing, meno bene l’informazione che ne è venuta fuori. In molti hanno infatti creduto al furto, media inclusi. D’altronde quando la macchina della viralità parte, bloccarla è pressoché impossibile. Ed anche le rettifiche non colgono spesso nel segno.
Perché la fake news arriva diretta, colpisce, distrae. Non tutti poi hanno il tempo di verificare, incrociare le fonti, approfondire. Anche perché le informazioni sono infinite, mentre il nostro tempo lo è tutt’altro.
Pararle tutte è impossibile: ho il timore che dovremo abituarci, o arrenderci, ad un certo grado di vulnerabilità.