La notte tra il 20 ed il 21 febbraio del 2020, il corso della storia ha preso una direzione inaspettata. Una direzione neanche tratteggiata sulle nostre mappe. Una direzione che ci ha portato a vivere momenti difficili, tragici; un nuovo percorso che abbiamo affrontato insieme, che ci ha unito, che ci ha diviso; nuove storie che ci hanno condizionato, che hanno modificato il nostro modo di pensare e che porteremo sempre con noi. Anche se la pandemia da Coronavirus non inizia ovviamente in quella data, ma settimane prima, è stata proprio in quella notte che noi italiani (e l’occidente) abbiamo avuto realmente la percezione della sua vicinanza. Ce la siamo trovata inaspettatamente di fronte, ci ha trovati impreparati e con il tempo abbiamo imparato a conoscerla.
In questi due anni di pandemia, ancora ben lontana dal ritenersi alle spalle, spesso mi sono domandato come questo periodo verrà raccontato nei prossimi anni. Come entrerà nei libri di storia, quali momenti saranno presi maggiormente in considerazione, cosa resterà e cosa verrà lasciato fuori. Come sarà raccontata nei film, nelle serie tv e nelle fiction della tv generalista.
A distanza di due anni, proprio quando stavamo iniziando a rimettere insieme i pezzi (anche psicologici, oltre che economici e sociali), tra il 24 e il 25 febbraio il corso della storia ha imboccato – “all’improvviso” – un’altra direzione. Una direzione ancora più tortuosa e ancora più inaspettata. Una direzione non solo non presente sulle nostre mappe, ma addirittura il cui spazio geografico (e storico), a differenza della pandemia, non esisteva neanche. Una guerra qui da noi, nel cuore dell’Europa, proprio non ce l’aspettavamo. Una guerra che per modalità e tipologia appartiene ad un secolo passato, da noi reso ancora più distante dalla velocità con le quali le nuove tecnologie ci hanno trasportato in un presente con le sembianze di futuro.
Non c’è dubbio che questi anni avranno un impatto forte e che verranno raccontati in molteplici forme. Così come non c’è dubbio che la direzione intrapresa dalle nostre vite sta già scrivendo un racconto nuovo; il cui finale, ad oggi, risulta ignoto.
Già il racconto. Con le nuove tecnologie le guerre sono diventate globali, prima ancora che mondiali (e per fortuna!). Nella sfera informativa, iperconnessa e pervasiva, siamo tutti protagonisti. Lo sono evidentemente a pieno titolo i due capi di stato coinvolti nel conflitto, Zelensky e Putin, e lo siamo tutti noi.
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Con le nuove tecnologie le guerre sono diventate globali, prima ancora che mondiali (e per fortuna!). Nella sfera informativa, iperconnessa e pervasiva, siamo tutti protagonisti. Siamo tutti chiamati in causa.
A questo proposito si è detto tanto della narrazione che i due leader stanno portando avanti e di come la stessa stia, a torto o a ragione, influenzando il conflitto. Nell’arena mediatica, nella quale appunto siamo tutti protagonisti, c’è chi afferma che Zelensky stia vincendo la guerra mediatica contro Putin. Personalmente non ne sono convinto. Stanno solo giocando due diverse partite: parlano a pubblici differenti ed hanno obiettivi differenti. Il primo, da un lato, sta riuscendo in maniera ineccepibile (ed è forse questo che fa propendere i favori verso tale opzione) a tenere alto il coinvolgimento dei paesi occidentali e non solo nei confronti delle ragioni del suo paese, attraverso un incessante pellegrinaggio che lo sta vedendo ospite in tutti i consessi istituzionali occidentali; dall’altro sta riuscendo a dare sempre nuova linfa all’umore dei suoi connazionali, anche attraverso una sapiente narrativa e all’abile uso dei social network. Il secondo, dal canto suo, come dice anche Massimiliano Panarari, politologo e sociologo della comunicazione, ha solo un obiettivo di comunicazione: la propaganda interna. Sotto questo aspetto si spiega quindi l’epurazione della parola guerra da tutti i discorsi relativi al conflitto, la simbologia imperialistica a cui ci ha abituati dall’inizio della guerra e la narrazione dell’accerchiamento occidentale nei confronti della Russia.
Ma come detto in questa guerra mediatica siamo tutti chiamati in causa. Ne avremmo fatto a meno tutti: a distanza di due anni siamo ripiombati nuovamente nella storia. Una storia nella quale il concetto di guerra nucleare è comparso troppo facilmente nel discorso comune. Ancora una volta, chissà come sarà raccontato tra 50 anni questo strano e inquieto periodo, già divenuto storico. Oggi non possiamo conoscere la direzione definitiva; lo stallo della guerra non ci permette di fare previsioni plausibili. Chi lo fa, evidentemente, fa dei meri esercizi di stile. Niente di più.
Qui, in mezzo a questa guerra (comunicativa), restiamo noi (oltre a chi davvero la sta combattendo e sta resistendo con coraggio e fermezza) a cercare di capire cosa ne sarà dell’indomani; cosa ne sarà di noi e del mondo così come l’abbiamo conosciuto. Come singoli possiamo fare tanto o poco, a seconda dei punti di vista. A mio avviso basterebbe già non fomentare e non contribuire alla polarizzazione della discussione. Possiamo non commentare e non ingaggiare sterili dibattiti. È possibile: ce n’è data facoltà. Se lo facessimo, potremmo addirittura scoprire che, di tanto in tanto, sottrarci al dibattito non è poi così sconveniente: abbiamo bisogno di più riflessioni ragionate e di meno condivisioni convulse.
Riflettere e ragionare, verbi che prevedono tempo. Un tempo che nel mondo dei social non è previsto; proprio come non lo era quello che sta accadendo.
Ivan Zorico
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