Ivan Zorico (353)
Prima di cominciare a scrivere un articolo, come spesso mi capita, vado alla ricerca di informazioni e spunti di riflessione che possono aiutarmi a meglio inquadrare l’oggetto della narrazione.
Così facendo, mi sono imbattuto in un bellissimo articolo anzi, mi correggo, in una bellissima inchiesta (che vi invito a leggere scrupolosamente) su una nuova fase di colonialismo che ha come oggetto le terre fertili e le risorse alimentari (a cura di Antonio Cianciullo, Michele
Di Salvo, Daniele Mastrogiacomo e Maurizio Ricci – Illustrazione di Mojmir Jezek – video di Maurizio Tafuro), pubblicata su repubblica.it il 6 ottobre ’14. In questo pezzo viene trattato il fenomeno del land grabbing, che letteralmente significa “accaparratori di terre”, messo in atto da attori finanziari, fondi pensionistici e Stati. Tale fenomeno affiora, impetuoso, alla fine del 2006, dopo un’improvvisa impennata dei prezzi che fa schizzare il Food-Index mondiale (l’indice di borsa sui prezzi degli alimenti agricoli basilari). Le realtà economiche-finanziarie (di cui sopra) stanno procedendo all’acquisto o alla locazione di estensioni terriere per periodi di 50-99 anni. Come riporta l’inchiesta, nel 2006 sono stati sottoscritti 416 “super-contratti” di land grabbing in 66 paesi del mondo, per un ammontare di 87 milioni di ettari di terre coltivabili, più di 5 volte l’intera superficie coltivabile italiana.
Gli Stati con il più alto tasso di terre accaparrate sono Sud Sudan, Papua Nuova Guinea, Indonesia, Repubblica Democratica del Congo, Mozambico, Sudan, Liberia, Argentina, Sierra Leone, Madagascar. Mentre, gli Stati che hanno maggiormente “colonizzato” queste terre sono Stati Uniti, Malaysia, Emirati Arabi, Gran Bretagna, Singapore, Cina, Arabia Saudita, Hong Kong, India.
Una riflessione che magari ora starete facendo, potrebbe essere: “è vero che i colonizzatori comprano le terre, tuttavia portano investimenti tecnologici in luoghi fertili ricchi di acqua, ma poveri di macchinari e strumenti di lavoro. Quindi, in qualche modo, aiutano le popolazioni locali a migliorare il loro (vecchio) processo produttivo”. Ma non è propriamente così. Molte volte queste terre non vengono messe a disposizione dell’agricoltura e della produzione alimentare, ma sono utilizzate per la produzione di biocarburanti come il granturco, la jalopha e la canna da zucchero, o per aumentare la superficie di pascolo. E la situazione non è così favorevole per le popolazioni locali, anche quando si pensasse di utilizzare una produzione agricola di tipo industriale. Un recente studio mostra infatti che se, in Tanzania, la terra fosse stata messa a disposizione dei piccoli contadini (anziché ai progetti di grandi latifondisti), alcuni milioni di persone avrebbero di che nutrirsi.
Su questo filone, si innesta una fondazione di cui mi accingo a parlare e che merita di essere sostenuta. Si tratta della Fondazione Slow Food, attiva ormai da quasi 30 anni e che conta 100.000 membri in 150 paesi. Il progetto cardine sul quale si basa questa associazione (dal punto di vista economico e organizzativo) è quello dei Presìdi. Ce ne sono oltre 340 in tutto il mondo e sono nati per tutelare i piccoli produttori e per salvare i prodotti artigianali di qualità. Slow food, pertanto, ha lo scopo di promuovere nel mondo il cibo buono, pulito e giusto. E non sono tre aggettivi buttati così a caso. Dietro ognuno di essi ci sono le radici e la finalità di questa associazione. Mi spiego: buono, non significa solo gustoso, ma è riferito alle proprietà organolettiche ed ai valori identitari; pulito, significa che è stato prodotto nel rispetto dell’ambiente; giusto, significa che si persevera l’equità sociale durante la produzione e la commercializzazione. Insomma Slow Food ci parla del cibo in un’accezione che forse ci siamo dimenticati, presi come siamo dai fast food e da una vita in perenne rincorsa. E ci parla non solo del cibo sano, ma anche della valorizzazione di chi lo produce, di chi lo mangia e dell’ambiente. Una delle attività più belle e più costruttive che mette in atto questa fondazione è sicuramente quella di educare al futuro.
Ed in questo senso e nel segno della discontinuità rispetto a quanto ho riportato nella prima parte del mio articolo, vi segnalo un’iniziativa, o per meglio dire, una sfida che proprio Slow food ha lanciato nel 2010. Sto parlando del progetto Terra Madre che ha l’ambizione di sostenere la realizzazione di 10.000 orti in Africa, coltivati (ovviamente) secondo tecniche eco-sostenibili e privilegiando le specificità e le varietà locali. Questa Fondazione nasce con l’intento di dotare i produttori degli strumenti per lavorare in condizioni migliori, e per dare risalto ai quei contadini, pescatori, allevatori, e piccoli produttori che preservano il gusto e la biodiversità del cibo. L’obiettivo è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica e di mostrare l’importanza del loro lavoro. Per fare tutto questo, è stato essenziale creare una rete mondiale che disponesse di strumenti di condivisione delle informazioni, capace di narrare di un differente, pulito e virtuoso sistema di produzione, al mondo intero. Se in qualche modo queste informazioni vi hanno incuriosito, vi invito a partecipare (o quantomeno a seguire tramite i mezzi di informazione) il Salone Internazionale del Gusto che si terrà tra il 23 ed il 27 di Ottobre a Torino. In quell’occasione saranno presentati i prodotti provenienti dai vari angoli del mondo, all’interno di un più ampio programma di eventi, ricco e “gustoso”.
Ma, tornando a noi, le cose sono abbastanza semplici. Da un lato abbiamo gli accaparratori di terre, organismi che neanche riusciamo a vedere perché aleggiano su di noi senza farsi vedere. Entità che attuano un utilizzo indiscriminato di risorse a danno, peraltro, di chi in quelle terre ci vive e che ha perso qualsiasi tipo di podestà su di esse. Dall’altro abbiamo Fondazioni come Slow food che da anni si impegnano a portare avanti, fattivamente, valori di eco-sostenibilità, rispetto del territorio e tutela dei piccoli produttori. Quando ci troviamo davanti ad un banco alimentari, proviamo a chiedere la provenienza del cibo che stiamo per comprare e premiamo, con l’acquisto, quei produttori che rispettano l’ambiente e che non lucrano sulla povera gente. Perché tutti noi, attraverso delle piccole scelte quotidiane, possiamo migliorare il nostro mondo ed incidere sulle scelte future. Basta solo volerlo.