Raffaello Castellano (533)
“Vincere non è tutto, è l’unica cosa che conta”, oppure “è quando tutti ti odiano che ci si diverte!”, ed ancora “buongiorno mezzeseghe. Oggi si cambia marcia, oggi è il giorno del “bastardo avido”. Il segreto della ricchezza, mezzeseghe, è uguale al segreto della comicità: i tempi!” ed infine “non dire a nessuno che sono in vacanza: è peggio che esser morti!”; è con queste battute che si presenta, a noi spettatori, il broker della City Londinese Max Skinner, interpretato da Russell Crowe (che torna a recitare in un film di Ridley Scott dopo il successo de “Il Gladiatore” del 2000), nel film “Un’ottima annata” (A Good Year, USA, 2006).
Max Skinner è spietato, avido, risoluto, tutte caratteristiche che ne hanno fatto un vero e proprio squalo della finanza. Interamente assorbito dal suo lavoro, “consuma” un’esistenza che, sebbene sembri piena e soddisfacente, in realtà cela qualche crepa che il dipanarsi della storia metterà in evidenza.
Il nodo narrativo, la svolta, il plot (per dirla in linguaggio tecnico) è la morte dello zio del nostro protagonista, Henry Skinner (Max è orfano ed è stato cresciuto proprio dallo zio Henry), che, morendo senza un testamento, gli ha lasciato, in quanto unico parente, tutti i suoi averi, tra cui una tenuta con annesso vigneto Château La Siroque,situata nella Provenza francese.Costretto a prenderne possesso, Max è intenzionato a “vendere” e “capitalizzare” quanto prima la proprietà, per tornare entro 48 ore a Londra ed al suo lavoro, ma un piccolo incidente stradale, la scoperta di una sorella illegittima (un’americana di nome Christie Roberts, interpretata da Abbie Cornish), una proprietà da ristrutturare ed un vino (quello prodotto dal suo vigneto) non proprio gustoso lo faranno rimanere in Francia ben oltre i tempi previsti.
Il piccolo incidente è quello che Max, alla guida di una Smart, compie investendo, senza rendersene conto, perché intento a parlare al cellulare, la bella proprietaria del Bistrot, Fanny Chenal (interpretata da Marion Cotillard, che l’anno dopo, interpretando la cantante Édith Piaf nel film biografico “La vie en rose”, vincerà l’Oscar), con la quale, dopo un’iniziale e scontato odio, nascerà prima una forte attrazione e poi una vera e propria passione.
La tenuta, dove Max è cresciuto insieme allo zio, richiede numerosi interventi di ristrutturazione, prima di essere venduta. Inoltre, appena varcata la soglia della masseria, la nostalgia, i ricordi e le emozioni travolgono il nostro protagonista, che, sorpreso e incredulo, dichiara in un dialogo con Christie: “Ogni mio ricordo è ambientato nel raggio di cento metri da questo preciso punto.” Christie Roberts: “E sono bei ricordi?” Max: “No. Sono fantastici.”
Insomma, in questo film quello che sembra un banale viaggio d’affari diviene piano – piano un viaggio nella memoria, nel tempo, nello spazio e nelle emozioni più vere del protagonista, che in pieno spirito “slow”, nel Mezzogiorno assolato della Francia, affronta il suo daimon, la sua ombra, il suo lato oscuro, cresciuto e prosperato nel grigio clima, sia atmosferico che relazionale, della City di Londra.
Il film propone una visione molto stereotipata, sia del lavoro del broker, sia della vita rurale, tanto portata all’eccesso che pare essere una precisa scelta narrativa e funzionale del regista. Da una parte, infatti, abbiamo un manager che si occupa di intermediazione mobiliare ad altissimo livello, rappresentato come una persona totalmente egoista e disumana, inconsciamente desiderosa di cambiar vita; dall’altra i contadini, i vignaioli ed i piccoli commercianti di paese, calorosi, autentici e solari, che favoriscono la trasformazione, quasi un’epifania, del protagonista. In realtà, ad una visione più attenta del film, scopriamo che Max Skinner riesce a salvare la tenuta ed il vino proprio grazie alle sue capacità manageriali ed alle sue competenze finanziarie, quindi non rinnegando il suo essere, ma piegandolo alle nuove esigenze, dimostrando, e dimostrandoci, che possiamo prenderci una “vacanza” da tutto, tranne che da noi stessi.
Il film propone, in definitiva, l’ennesimo mito, ma sarebbe meglio dire archetipo, del viaggio come trasformazione, dove non è la meta o il risultato a contare, ma è il viaggio stesso ad essere fonte di trasformazione. Il film sembra dirci che, così come noi plasmiamo il nostro mondo, il nostro ambiente, la nostra casa, allo stesso modo la nostra casa, l’ambiente ed il mondo ci plasmano, ci influenzano, in qualche misura, addirittura, ci cambiano.
Un Max trasformato, alla fine del film, dichiarerà il suo amore a Fanny usando queste ispirate parole: “Vorrei passare tutta la vita con una dea irrazionale e sospettosa, con un assaggio di gelosia furibonda come contorno, e una bottiglia di vino che abbia il tuo sapore e un bicchiere che non sia mai vuoto…”.
Quindi, potremmo azzardarci a dire che, fare il turista non è mai per caso (giusto per citare un altro famoso film di Lawrence Kasdan del 1988), ma che forse le mete, le destinazioni, i mezzi ed anche i compagni che scegliamo per affrontarli sono dettati da motivazioni profonde, spesso inconsce, che in un modo o nell’altro ci conducono là dove, probabilmente, da sempre volevamo andare. Non dimenticandoci il monito del grande filosofo americano Ralph Waldo Emerson: “Anche se giriamo il mondo in cerca di ciò che è bello, o lo portiamo già in noi, o non lo troveremo mai”.