Se ne sente parlare tanto, alle volte anche a sproposito, in un mondo online ed offline sempre più congestionato, interconnesso, affollato e con un assordante e onnipresente rumore di fondo, emergere, farsi notare, diventare autorevoli, passa sempre più dal “chi siamo” che dal “cosa facciamo” o “cosa vendiamo”.
Eppure il problema, o meglio la complessità, che oggi comporta fare personal branding in quella immensa infosfera che abitiamo offline, ma soprattutto online, non è nata ne è sopraggiunta con le nuove tecnologie, ma esisteva anche prima.Ricordo sempre con piacere la mia esperienza di venditore che ho svolto per 7 anni, più o meno meglio, dal 1993 al 2000. Ho avuto la fortuna di lavorare con un’azienda che poneva sulla formazione grandissima attenzione ed investimenti, che organizzava convegni di formazione full immersion di 3, 5 o 7 giorni almeno due volte all’anno, e che ogni due mesi teneva corsi di una o due giornate nei vari uffici regionali.
In questi incontri, poco più che 20-25enne ho avuto la fortuna di conoscere personalità come Virgilio De Giovanni, fondatore del magazine Millionaire, esperti di PNL (negli anni ‘90, non oggi), di comunicazione, di vendita e perfino di pirobazia; tanta roba, una formazione che ancora oggi, a distanza di oltre 20 anni, mi torna utile nelle mie esperienze come giornalista, formatore e content creator.
Fra tutti questi docenti, uno dei più capaci e comunicativi che abbia mai conosciuto non era un esterno, ma un interno all’azienda, il direttore vendite e formazione Roberto Vangelista; fu lui, più come mentore che come docente, che mi introdusse ai fondamentali della comunicazione umana, alla prossemica e a Paul Watzlawick, e che per primo mi fece conoscere i concetti fondamentali del personal branding, che all’epoca ancora non si chiamava così, ma era un’attitudine (Roberto Vangelista avrebbe preferito la parola abitudine) a fare le cose in un certo modo.
Voglio parlarvi fra i tanti di due esempi, la teoria del “come se” e l’importanza dell’abito nel fare il monaco e il venditore.
Cominciamo dalla prima: quando un nuovo collaboratore cominciava a fare il venditore in azienda e durante i convegni si confrontava, sentiva e vedeva i risultati di quelli più bravi ed esperti (niente supercar a Dubai, ovviamente), stentava a credere di poter avere quel successo solo applicando una corretta programmazione e pianificazione degli appuntamenti della sua agenda di lavoro, e lo sappiamo tutti noi quanto i primi tre/quattro mesi siano difficili in qualunque lavoro. Per ovviare a questa subdola insicurezza lui ci diceva “semplicemente” di comportarci “come se” fossimo già il venditore di successo che volevamo diventare.
Ci ho messo un bel po’ per capire l’importanza di questo insegnamento, ma devo dire che quando ho cominciato ad applicarlo le opportunità, le vendite e gli appuntamenti si sono magicamente moltiplicati.
Insomma il credere in se stessi, quando ancora nessuno ci crede, è un atto di fede e coraggio necessario che appunto crea effetti miracolosi e finisce per influenzare la realtà della nostra condizione professionale, un concetto che, sono sicuro, qualunque esperto di personal branding sposerebbe ed applicherebbe, anche oggi.
Il secondo riguardava l’importanza dell’abito per i venditori: dobbiamo considerare che eravamo negli anni ‘90 e che la mentalità e anche il dress code di lavoro erano diversi, ma io ho potuto sperimentare l’importanza inconscia che l’abito riveste su chi lo indossa.
Mi spiego meglio, una delle cose più importanti e più difficili da far capire ai venditori, me compreso, era che la cosa fondamentale da ottenere dal cliente non era l’acquisto del nostro prodotto, ma che il potenziale cliente ci fornisse almeno 10 nominativi di suoi amici o parenti con i quali organizzare altri appuntamenti.
Io ero un buon venditore, ma sono stato, soprattutto all’inizio, un pessimo raccoglitore di nominativi.
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Chi è riuscito a costruire nel tempo (ed a mantenere) un ottimo brand personale, ha davanti a sé molteplici possibilità. Il lavoro lo attrae e non lo cerca. Questa è la figata del personal branding.
Ma veniamo al punto: gran parte degli appuntamenti di vendita, noi li chiamavamo consulenze, venivano fissati per telefono e principalmente di mattina o nei fine settimana, quando a casa, in tuta o peggio in pigiama, facevamo le telefonate per stabilirli. Il consiglio del giusto abito era proprio per questi particolari momenti, Roberto Vangelista ci diceva che se avessimo messo giacca e cravatta ed avessimo fissato quegli appuntamenti avremmo avuto risultati migliori.
Lo so che può sembrare strano, perchè a casa e per telefono il potenziale cliente non poteva vederci, e non so perchè funzionasse, ma io ho visto aumentare più del doppio la mia capacità di fissare appuntamenti telefonici solamente vestendomi come se stessi lavorando.
Togliermi il pigiama per fare le telefonate da casa, non so come, mi fece diventare più incisivo e professionale e mi permise di riempire la mia agenda di appuntamenti di lavoro.
Furono questi i primi e forse più importanti insegnamenti di Personal Branding che io abbia mai appreso e messo in pratica, ottenendo quei risultati “magici” che solo l’azione riesce a conferire alla teoria.
Lo so, sono andato un po’ lungo, ma voi affezionati lettori di Smart Marketing perdonerete questo direttore 50enne che comincia a riscoprire la nostalgia dei ricordi, ancora di più oggi che con questo numero, che vi apprestate a leggere, il nostro magazine festeggia i 10 anni di pubblicazioni.
Un traguardo importante, al quale hanno contribuito tutti i nostri collaboratori, tutti voi lettori, tutti i partner che ci hanno dato fiducia, il mio socio ed amico Ivan Zorico e, forse, anche quel ragazzo in giacca e cravatta che 25 anni fa fissava gli appuntamenti al telefono e si comportava “come se” fosse già un venditore di successo.
Buona lettura e buon personal branding a tutti!
Raffaello Castellano
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